Dalla morte fisica di Engaku Tàino (Luigi Mario, 1938-2021) mi è scattato, oltre che il lutto, un profondo bisogno di capire quell’anarchico montanaro “bonzo”. Non ricorderò qui la cronologia di vita e opere, facilmente reperibili sul sito di Scaramuccia. Ho invece ripreso in questi giorni i preziosi libricini pionieristici anni ’70, in parte da me utilizzati per il capitolo su Linji/Rinzai nel mio libro “La mente che respira”. Ho anche scavato nei tanti materiali perlopiù orali lì catalogati con cura, oltre che pagine degli unici libri non fuori catalogo (uno Ed.Mediterranee e l’altro Iacobelli ed.), in cui fece una antologia di tutti quei suoi discorsi (rigorosamente improvvisati) del mercoledi, o dei ritiri mensili. Questo è quello che mi hanno suscitato, per non dimenticare il suo percorso di monaco zen.
UN MONASTERO SENZA MONACI. Scaramuccia è sempre stata la cascina-casa di Tàino, sulla collina di fronte ad Orvieto. Dopo 6 anni nel monastero dell’allora famoso Momun, era rientrato trentenne con un prezioso “mandato” zen per l’Italia, si era sposato e fatti due figli. A parte qualche tentativo iniziale, capì che la sua giusta dimensione era quella di un “abate” senza una comunità stabile. Non gli interessava ripetere per altri la dura esperienza giapponese, in cui lui fu umile servitore di Mumon. Niente gerarchie o ruoli fissi o dinamiche prevedibili. Soprattutto aveva bisogno lui per primo di potersi muovere per la sua passione di sempre: insegnare sci, aprire vie alpine, e poi diffondere l’arte dell’arrampicata. Tutti modi non solo per dedicarsi agli altri, ma anche per coniugare – in libertà – la solitudine di una parete rocciosa, con la solitudine davanti a un muro nello zendo (nello zen si medita verso il muro).
Così anche la denominazione base di Scaramuccia negli anni è stata discussa e cambiata. Prima “Monastero” sia pure frequentato soltanto nei frequenti ritiri. Poi “Centro di pratica chan”, alla cinese, forse per non confondersi con la crescente moda zen (come dire che si rifaceva all’originale “maledetto” Linji e non alla sua ombra giapponese di 300 anni dopo, Rinzai). E infine oggi “Tempio buddista”, senza acca: una struttura in qualche modo aperta, tanto più che non conterà più su quel particolare fondatore-maestro, morto di Covid senza uscire di casa…
UNO CHAN-ZEN RUVIDO, MA CREATIVO. Nel 1988 la morte di Mumon – che visitò due volte Scaramuccia, apprezzandola – cambiò quasi tutto, dopo una dozzina di anni di avvio in salsa beat. Un unico stanzone per ogni funzione collettiva, compreso il sonno nei sacchi a pelo, un bagnetto senza acqua calda, massima libertà nelle pause e nelle serate allegre, oltre che la pratica parallela della montagna e delle arti marziali. Ma ecco, arrivarono gli osservatori zen rinzai ortodossi che non gradirono e chiesero impossibili modifiche, a cominciare dalle vite separate tra uomini e donne… Luigi Mario ormai era diventato Engaku Tàino: che fare? Una propria setta? No. Una scelta netta. Tagliare il legame con il lignaggio Otokan (credo) e proseguire per la propria strada. Cioè mantenere ogni aspetto tradizionale delle meticolose cerimonie, dei calendari, delle pratiche zen rinzai, senza accomodamenti, come in ogni Zenshinji, per poi – tolti i mantelli – proporre una laicità piena, all’insegna del rapporto con la natura, col proprio corpo, con la propria ricerca a 360 gradi. Tenere insieme tutti gli insegnamenti ricevuti e tutti gli stimoli di una vita di oggi.
Alla sua morte qualcuno in Italia dovrebbe ora chiedere scusa, ma è improbabile. Soprattutto i primi divulgatori dello zen – ancora sull’onda delle varie voci californiane tra misticismo e narcisismo (Watts) – storsero il naso e, finché Scaramuccia non divenne comunque un luogo riconosciuto e apprezzato da varie persone confluite da mezza Italia per provare proprio “quello”, provarono a fargli il vuoto attorno, come accade per ogni “eccentrico”. Imperterrito Tàino invece si dette da fare per far decollare (con quanta lentezza) l’Unione buddhista italiana (con l’acca). In parallelo “GGGigggi il Bonzo” vide alzarsi muri anche dal mondo degli scalatori, quelli solo alpini, quelli “conquistatori” di cime (come aveva fatto anche il giovane Luigi), o stanchi accompagnatori di ricchi clienti su percorsi attrezzati. Alla fine ebbe incarichi importanti come formatore non solo di “guide alpine”, proponendo alla francese figure di Maestri della montagna. La parete di Ferentillo (ndr.: il paese dei viandanti “mummie”), in Valnerina, fu lui ad attrezzarla ed animarla. E con attività di questo tipo scardinò un altro antico stereotipo del monachesimo orientale: Non lavorare, vivere del sussidio dei discepoli riconoscenti…
IL KOAN COME GUIDA DI VITA QUOTIDIANA. Tra le tante storpiature del pensiero orientale, era inevitabile sentire “raccontare” in modo mitico anche della sifda più originale, anzi unica, ideata da Línjì Yìxuán nel’ottavo secolo dC. Il koan fu poi così ribattezzato dai monaci giapponesi del dodicesimo secolo, andati in Cina alla ricerca delle radici buddhiste ormai perdute nell’arcipelago.
Engaku si è identificato profondamente nel koan, ma in modo a dir poco originale, rischiando nelle relazioni e nell’insegnamento, senza facili parodie del passato.
Prima ancora che provare a definire il Koan, qui è importante sottolineare la novità assoluta proposta nel rapporto maestro/bikkhu o monaco/laico. Nasce un rapporto personale senza precedenti, a due, segreto, diretto, sostanziato da un percorso di incontri flash, pochi minuti, a distanza di tempo, in cui ricevere una storia o una domanda in apparenza insolubile cui dare risposta entro un certo tempo nel nuovo incontro (la prima volta, entro due anni…). Una compagnia spirituale, prima che intellettuale.
Il koan non è dunque un filo spinato, un martirio mentale verso il praticante, già risvegliato con un bastone piatto durante le sesshin notturne! Il koan insoluto diventa una forma di risveglio che attraverserà da quel momento la vita quotidiana di entrambi. Infatti non è detto che il maestro abbia in tasca la risposta, forse ha solo alzato il tiro per veder crescere l’allievo/avversario, incontro dopo incontro.
Oggi sono stati ordinati circa 50 monaci e sono attivi circa 30 centri in giro per il paese. Non so ora quale potrà essere l’evoluzione di Scaramuccia senza un leader così indefinibile, colto e antidogmatico, ruvido e accogliente, squadrato e atletico.
RIASSUMENDO. Consiglio – e lo sto facendo – di leggere qualche raccolta dei koan originali creati da Engaku Tàino, dopo aver usato a lungo le proposte di Linji (“Battaglie”) o Mumon (“La porta senza porta”). Rideva con orgoglio di tanta spregiudicatezza. Ne ha divulgati 116, paradossali e poetici, aprendo altre strade di libertà contemplativa.
Per lui la domanda contemporanea insita in un nuovo koan non è una subdola elucubrazione astratta, ma il frutto di un qualche momento della vita quotidiana: il dubbio davanti a una falesia, ma anche un popcorn al cinema coi figli, o una frase della vecchia madre. E iniziava un personale braccio di ferro tra le proprie voci, ciascuna in cerca della soluzione, dell’azione ideale, sapendo che tutto va preso com’è. Ogni volta Tàino ripeteva – in primis a sè stesso – che quando sai che c’è l’assoluto, che ormai conosci a parole, non c’è nulla da aspettare! l’illuminazione è nell’accettare quello che la vita oggi ti passa, riconoscerla, trasformarla. Senza più tormenti, senza dogmi (nè religiosi, nè laici), con le idee chiare per salire più in alto, anche dove sono già passati in tanti. (p.g.)