BENEDETTINI

Il giovane Benedetto da Norcia (480 – 547 d.C.), scandalizzato da una visita a Roma, lasciò casa e beni di famiglia per la vita monastica. Eremita per 3 anni al Sacro Speco, per 30 anni si dedicò a creare una rete di 12 monasteri di 12 monaci, prima a Subiaco e poi a Montecassino. Qui nel 540 compose la sua Regola, elaborando le esperienze dei Padri del deserto, di san Martino da Tours, di Basilio, di subiacosant’ Agostino. Il monaco viene legato al suo monastero, al rispetto del “padre” spirituale e all’alternanza preghiera / lavoro. Le tombe di San Benedetto e Santa Scolastica sono sopravvissute alle guerre: si trovano sull’altar maggiore della ricostruita abbazia di Montecassino.

Ecco i passi della regola relativi al refettorio e al rapporto col cibo. Segue una nota dal libro di Léo Moulin, La vita quotidiana secondo San Benedetto, Jaca Book 1980.

Capitolo XXXVIII – La lettura in refettorio

  1. Alla mensa dei monaci non deve mai mancare la lettura, né è permesso di leggere a chiunque abbia preso a caso un libro qualsiasi, ma bisogna che ci sia un monaco incaricato della lettura, che inizi il suo compito alla domenica.
  2. Dopo la Messa e la comunione, il lettore che entra in funzione si raccomandi nel coro alle preghiere dei fratelli, perché Dio lo tenga lontano da ogni tentazione di vanità;
  3. e tutti ripetano per tre volte il versetto: “Signore apri le mie labbra e la mia bocca annunzierà la tua lode”, che è stato intonato dal lettore stesso,
  4. il quale, dopo aver ricevuta così la benedizione, potrà iniziare il proprio turno.
  5. Nel refettorio regni un profondo silenzio, in modo che non si senta alcun bisbiglio o voce, all’infuori di quella del lettore.
  6. I fratelli si porgano a vicenda il necessario per mangiare e per bere, senza che ci sia bisogno di chiedere nulla.
  7. Se poi proprio occorresse qualche cosa, invece che con la voce, si chieda con un leggero rumore che serva da richiamo.
  8. E nessuno si permetta di fare delle domande sulla lettura o su qualsiasi altro argomento, per non offrire occasione di parlare,
  9. a meno che il superiore non ritenga opportuno di dire poche parole di edificazione.
  10. Prima di iniziare la lettura, il monaco di turno prenda un po’ di vino aromatico, sia per rispetto alla santa Comunione, sia per evitare che il digiuno gli pesi troppo,
  11. e poi mangi con i fratelli che prestano servizio in cucina e in refettorio.
  12. Però i monaci non devono leggere e cantare tutti secondo l’ordine di anzianità, ma questo incarico va affidato solo a coloro che sono in grado di edificare i propri ascoltatori.

Capitolo XXXIX – La misura del cibo

  1. Volendo tenere il debito conto delle necessità individuali, riteniamo che per il pranzo quotidiano fissato – a seconda delle stagioni – dopo Sesta o dopo Nona, siano sufficienti due pietanze cotte,
  2. in modo che chi eventualmente non fosse in condizioni di prenderne una, possa servirsi dell’altra.
  3. Dunque a tutti i fratelli devono bastare due pietanze cotte e se ci sarà la possibilità di procurarsi della frutta o dei legumi freschi, se ne aggiunga una terza.
  4. Quanto al pane penso che basti un chilo abbondante al giorno, sia quando c’è un solo pasto, che quando c’è pranzo e cena.
  5. In quest’ultimo caso il cellerario ne metta da parte un terzo per distribuirlo a cena.
  6. Nel caso che il lavoro quotidiano sia stato più gravoso del solito, se l’abate lo riterrà opportuno, avrà piena facoltà di aggiungere un piccolo supplemento,
  7. purché si eviti assolutamente ogni abuso e il monaco si guardi dall’ingordigia.
  8. Perché nulla è tanto sconveniente per un cristiano, quanto gli eccessi della tavola,
  9. come dice lo stesso nostro Signore: “State attenti che il vostro cuore non sia appesantito dal troppo cibo”.
  10. Quanto poi ai ragazzi più piccoli, non si serva loro la medesima porzione, ma una quantità minore, salvaguardando in tutto la sobrietà.
  11. Tutti infine si astengano assolutamente dalla carne di quadrupedi, a eccezione dei malati molto deboli.

Capitolo XL – La misura del vino

  1. “Ciascuno ha da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro”
  2. ed è questo il motivo per cui fissiamo la quantità del vitto altrui con una certa perplessità.
  3. Tuttavia, tenendo conto della cagionevole costituzione dei più gracili, crediamo che a tutti possa bastare un quarto di vino a testa.
  4. Quanto ai fratelli che hanno ricevuto da Dio la forza di astenersene completamente, sappiano che ne riceveranno una particolare ricompensa.
  5. Se però le esigenze locali o il lavoro o la calura estiva richiedessero una maggiore quantità, sia in facoltà del superiore concederla, badando sempre a evitare la sazietà e ancor più l’ubriachezza.
  6. Per quanto si legga che il vino non è fatto per i monaci, siccome oggi non è facile convincerli di questo, mettiamoci almeno d’accordo sulla necessità di non bere fino alla sazietà, ma più moderatamente,
  7. perché “il vino fa apostatare i saggi”.
  8. I monaci poi che risiedono in località nelle quali è impossibile procurarsi la suddetta misura, ma se ne trova solo una quantità molto minore o addirittura nulla, benedicano Dio e non mormorino:
  9. è questo soprattutto che mi preme di raccomandare, che si guardino dalla mormorazione.

Capitolo XLI – L’orario dei pasti

  1. Dalla santa Pasqua fino a Pentecoste i fratelli pranzino all’ora di Sesta, cioè a mezzogiorno, e cenino la sera.
  2. Invece da Pentecoste in poi, per tutta l’estate, se non sono impegnati nei lavori agricoli o sfibrati dalla calura estiva, al mercoledì e al venerdì digiunino sino all’ora di Nona, cioè fin dopo le 14
  3. e negli altri giorni pranzino all’ora di Sesta.
  4. Ma nel caso che abbiano da lavorare nei campi o che il caldo sia eccessivo, potranno pranzare tutti i giorni alle 12, secondo quanto stabilirà paternamente l’abate.
  5. Così questi regoli e disponga tutto in modo che le anime si salvino e i monaci possano compiere il proprio dovere senza un motivo fondato di mormorazione.
  6. Dal 14 settembre fino all’inizio della Quaresima pranzino sempre all’ora di Nona.
  7. Durante la Quaresima, poi, fino a Pasqua pranzino all’ora di Vespro:
  8. questo Ufficio però dev’essere celebrato a un’ora tale da non aver bisogno di accendere il lume durante il pranzo e poter terminare mentre è ancora giorno.
  9. Anzi, in ogni stagione, sia l’ora del pranzo che quella della cena devono essere fissate in maniera che tutto si possa fare con la luce del sole.

Il pasto
II monaco è un uomo che ama la vita. La nevrosi e le disperazioni romantiche non hanno posto nelle abbazie. Similmente egli ama la buona tavola altrimenti non si spiegano le minacciose proibizion i dei consuetudinari (e le infrazioni). Se egli accetta di non mangiare mai carne né grasso, se si accontenta di «erbe» e di «radici», di uova e di pesce, è per spirito di mortificazione e non perché egli disprezza o non conosce le gioie della tavola. Ogni giorno al prandium (il pranzo degli italiani), i monaci di Cluny ricevevano due piatti. È una concessione di San Benedetto alle debolezze, il patriarca scrive: infirmitates, di tutti e di ciascuno.
Il primo consiste in farina di avena e di orzo bollita; il secondo è fatto di «erbe», cioè di ciò che cresce sul suolo—legumi di ogni specie, insalata, cavoli, porri e cipolle — e di «radici» — bulbi, carote, rape e a partire dal XVII secolo le patate. Quindi frutta, formaggio, latticini, vino o birra.
Nei giorni di digiuno, i monaci non facevano che un solo pasto: alle due nei digiuni previsti dalla regola dal 14 settembre a Pasqua, alle quattro del pomeriggio in Quaresima. Mangiare in queste condizioni, quando si è in piedi dalle prime ore della notte e digiuni da 24 ore è veramente un disjunare, cioè «rompere il digiuno» (in inglese breakfast). Al di fuori di questi periodi di privazioni quando tutti conoscevano «l’esperienza e
le prove del rifiuto» (R. Ruyer), era previsto un pasto di sera, cena, più leggero del prandium. Una porzione supplementare di uova, di formaggio cotto, di cipolle, servita in un solo piatto era chiamata generale o pietanza, dal latino pietas, perché questo supplemento, che in Quaresima consisteva di minestra al latte, molto spesso era assicurato da pie fondazioni: spesso era una porzione da dividere in due. I monaci conoscevano ancora il mixtum, cioè del pane intinto nel vino (o nella birra) preso dopo l’ufficio del mattino e dopo i Vespri; il liberes, dopo nona, e la collatio, un pasto frugale preso dopo la lettura delle collationes di Cassiano nei giorni di digiuno (c. 42).
II pane, fatto il più delle volte di farina mescolata di orzo, miglio, farro, o segala, orzo e frumento con aggiunta di legumi nei giorni di bisogno, costituiva la base insieme con i farinacei, polenta o porridge, della
nutrizione medioevale.
Lo si preparava in tantissimi modi, andando dalle torte fatte in padella chiamate focacce al panis natalitius,
il pane di Natale, dal pane tostato, dal biscotto (biscoctus, cotto due volte) ai gressins (da gresa,
grasso), i nostri attuali grissini.

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