WUSHU

Non sono molti ancora oggi i terreni di incontro tra Oriente e Occidente.

Non le fedi, non le relazioni sociali, non i modelli istituzionali, non gli impegni ambientali. Certo l’avvicinamento c’è grazie ai modelli di consumo: ma forse non può essere un modo per conoscersi e imparare la convivenza.

Se c’è un terreno che, sia pure per piccoli numeri, ha funzionato è l’apprezzamento dell’Occidente per le pratiche orientali dedicate all’equilibrio tra corpo e mente: in primis le scuole YOGA indiane. Poi, lentamente, anche le cosiddette “Arti marziali” cinesi e thailandesi. Il termine originale è WUSHU , relativamente recente, da quando negli anni 60 la Cina post-maoista accettò di rivalutare (ufficializzandole) antiche tecniche a lungo stigmatizzate come superstizioni popolari. Queste arti sono oggi ben definite, come le esterne, a cominciare dal Kungfu esaltato da tante pellicole cinematografiche, o le interne, come il Taijiquan. Sono oggi rigorosamente nonviolente, senza contatto, “marziali” solo per ricordarne l’antico utilizzo (persino da parte di monaci). Le armi di alcune tradizioni hanno solo una funzione estetica e di perfezionamento (spade, bastoni, ventagli, scacciamosche). Si praticano individualmente o in coppia, con la costruzione anche di coreografie di gruppo.

Possono essere esaltate in chiave competitiva (anche in Italia sono incluse nel Coni), o piuttosto utilizzate dentro percorsi di spiritualità di interesse di laici. Chi vuole può approfondire le arti interne con un contatto più diretto con scuole cinesi di derivazione religiosa, in particolare taoista, come nei monasteri Shaolin e Wudang: sono centinaia gli occidentali che partecipano ai loro stages o vi soggiornano per dei periodi.